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Nel 1975 la condizione delle donne fece un fondamentale passo avanti: la riforma del diritto di famiglia eliminò la concezione di famiglia risalente agli anni Quaranta, fondata sulla subordinazione della moglie al marito nei rapporti personali come in quelli patrimoniali e nelle relazioni di coppia nei riguardi dei figli, sostituendola con una norma ispirata ai valori costituzionali. Venne riconosciuta la parità giuridica dei coniugi e fu istituita la comunione dei beni come regime patrimoniale legale della famiglia (in mancanza di altri accordi). Furono abrogati l’istituto della dote (insieme di beni che la sposa era obbligata a fornire allo sposo) e la potestà maritale in base alla quale l’uomo assumeva in famiglia, oltre alla patria potestà, anche il ruolo predominante rispetto alla moglie che non poteva stipulare indipendentemente contratti e amministrare beni. La legge assegnava anche al marito il ruolo preminente ruolo nell’educazione dei figli, nella scelta del domicilio, nel lavoro e nel cognome adottato dalla moglie.
Queste conquiste di cinquant’anni fa ci sembrano acquisizioni assodate, si fa quasi fatica a credere che ci sia voluta una legge per abolire la dote o consentire alle madri di firmare le giustificazioni scolastiche dei figli e delle figlie (chi andava a scuola negli anni Settanta ricorderà i moduli prestampati che per la firma riportavano l’indicazione “il padre o chi ne fa le veci”). Eppure, le leggi maturano e cambiano all’interno di specifici portati culturali e ne sono il riflesso. Le battaglie delle donne per i diritti civili in quel decennio portarono a molte conquiste: oltre al diritto di famiglia, il divorzio (1970) e il diritto all’interruzione di gravidanza (1978).
Ciononostante, c’è ancora molto da fare per difendere i diritti delle donne, com’è nelle priorità di Amnesty International. La nostra associazione, nata in Italia nel 1975, conta ora più di 90.000 tra sostenitori, soci e persone attiviste. In questa ricorrenza così importante per noi, chiediamo che le istituzioni italiane facciano un decisivo passo avanti per i diritti umani su un tema su cui stentiamo a credere che ci siano divisioni politiche.
Nel luglio 2020 abbiamo avviato la campagna “Io lo chiedo” per modificare quanto previsto attualmente da Codice penale secondo cui la violenza sessuale è riconosciuta solamente se l’atto è compiuto tramite violenza, minaccia o abuso d’autorità (art. 609-bis). Cosa ne è dei casi in cui una di queste condizioni non si verifica? Se la vittima è paralizzata perché il violentatore è un parente o il partner? L’unico criterio per definire la violenza sessuale dev’essere l’assenza di consenso. Molti degli stati europei hanno già modificato in questo senso la propria legislazione, uniformandola a quanto richiesto dalla Convenzione di Istanbul (firmata anche dall’Italia).
A cinquant’anni di distanza guardiamo con gratitudine a chi abolì istituti desueti come la potestà maritale o la dote o la disparità tra coniugi, anche le generazioni che verranno meritano dei motivi per essere grate ai legislatori di oggi. L’Italia deve mettere da parte una legge obsoleta, riconoscendo che il sesso senza consenso è stupro: quando ciò accadrà, sarà un passo avanti importante per prevenire e contrastare la violenza sessuale e migliorare l’accesso alla giustizia.
Alba Bonetti – presidente di Amnesty International Italia