Le strade sicure le fanno le donne che lottano

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“Le strade sicure le fanno le donne che le attraversano”
è una frase che risuona potente nelle piazze e
nelle strade dove si chiedono diritti e libertà.
Strade che in tutto il mondo diventano spazi di lotta
per donne e ragazze pronte a rischiare tutto.
Strade dirette verso un mondo più giusto.

 

Le strade sicure le fanno le donne che lottano.

 

 

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35°47′45.6″N 51°23′02.4″E | Provincia di Teheran, Tehran, Distretto 2, Dasht-e Behesht | Iran

Nella strada davanti alla prigione di Evin, a Teheran, si protesta per tutte le persone che sono state inghiottite in quel buco nero. Molte, sia fuori che dentro, sono donne. 

Tra loro c’è Pashkhan Azizi, operatrice umanitaria e attivista della società civile, condannata a morte nel 2024. 

Appartenente all’oppressa minoranza etnica curda dell’Iran, è stata accusata di “ribellione armata contro lo Stato”. La sua colpa? Aver aiutato donne e bambini sfollati in seguito agli attacchi del gruppo armato Stato islamico nel nord-est della Siria e nella regione del Kurdistan iracheno. 

Pashkhan è stata tenuta in isolamento prolungato ad Evin senza poter parlare con l’avvocato o con la famiglia ed è stata sottoposta torture per costringerla a “confessare” legami con gruppi dell’opposizione armata curda.

 

59°58’00.8″N 30°18’23.1″E | Malyy Prospekt P.s., 87 | Russia

In una stradina del parco Shevchenko di Tara, a San Pietroburgo, c’è una statua dedicata all’omonimo poeta ucraino. Un giorno Daria Kozyreva, 17 anni, si avvicina al monumento e lascia sotto al piedistallo un verso della poesia “Testamento”.  

Questo basta per arrestarla con l’accusa di “discredito” nei confronti delle forze armate russe. 

Non è la prima volta che Daria critica la guerra in Ucraina. È già stata accusata di rimuovere, in altre strade della sua San Pietroburgo, gli adesivi con la lettera “Z”, simbolo della propaganda di guerra, incollati sui monumenti pubblici.  

Daria ha trascorso quasi un anno in carcere in attesa del processo ed è stata espulsa dalla facoltà di Medicina. Nel febbraio 2025 è stata scarcerata, ma le accuse contro di lei sono ancora in piedi.

 

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The Prosecutor of St. Petersburg
2/9 Pochtamtskaya Street
Saint Petersburg
190000
Russian Federation
Fax: +7 812 318 26 11

Egregio Pubblico Ministero,

Daria Kozyreva è stata arrestata il 24 febbraio 2024 e ha trascorso quasi un anno in carcere in attesa del processo. Durante la sua detenzione, è stata espulsa dall’università e, con il passare dei mesi, le accuse contro di lei sono aumentate.

Nel febbraio 2025 è stata scarcerata, ma la sua libertà rimane limitata, e le accuse contro di lei sono ancora in piedi. Amnesty International considera Daria Kozyreva una prigioniera di coscienza.

La esortiamo ad annullare le accuse contro Daria Kozyreva, mosse solo per aver criticato la guerra in Ucraina. Ogni persona ha il diritto di esprimere liberamente le proprie opinioni, inclusa Daria.

Chiediamo che tutte le accuse contro di lei siano ritirate e che torni immediatamente ad avere una vita libera.

La ringraziamo per l’attenzione.

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54°05’45.9″N 127°26’56.4″W | Morice River Forest Service Road | Canada

Nella Morice River Forest Service Road, in Canada, le persone della nazione Wet’suwet’en da anni ostacolano con azioni pacifiche i lavori per la costruzione di un gasdotto che non ha il consenso dei capi ereditari e dei loro clan.  

Tra loro c’è Sleydo’ Molly Wickham, leader del gruppo Cas Yikh, del clan Gidimt’en: una popolazione nativa che vive e si prende cura delle terre ancestrali da molto prima che quel territorio diventasse la British Columbia. 

 

 

Le proteste sono state represse con la forza e le autorità provano a fermare la lotta di Sleydo’ e delle altre persone che difendono terra attraverso azioni legittime. 

 

XX°XX′XX″N XX°XX′XXX″E | Arabia Saudita

Dove si trova Manahel invece non lo sa nessuno. Manahel al-Otaibi, attivista saudita e personal trainer condannata a 11 anni di carcere, è infatti vittima di sparizione forzata da mesi. 

Quello che si sa è che è stata condannata per dei video, girati in un centro commerciale, in cui appariva senza l’abaya (abito tradizionale) e per aver pubblicato sui social dei post in favore dei diritti delle donne. 

Manahel, che ha una diagnosi di sclerosi multipla, è già stata vittima una volta di sparizione forzata, ha subito torture durante un periodo di isolamento, è stata brutalmente picchiata in cella e non ha avuto per lunghi periodi accesso alle cure mediche. 

 

 

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La difficile lotta nelle strade di Teheran e Kabul

Nelle strade di Teheran le ragazze lanciano in aria il velo e vengono arrestate. In quelle di Kabul le donne continuano a scendere in piazza contro chi vorrebbe farle scomparire. 

Donne di stati diversi, unite dalla stessa lotta per riconoscere “l’apartheid di genere” come crimine di diritto internazionale. 

Definito per la prima volta dalle difensore dei diritti umani afgane quando, negli anni Novanta, i talebani sottomisero le donne e le ragazze e ne attaccarono i diritti, è diventato ancora più utilizzato da quando i talebani sono tornati al potere.  

Oggi infatti, in Afghanistan, le donne non possono lavorare, studiare, frequentare gli spazi pubblici, viaggiare e vestirsi come vogliono. Non possono studiare dopo la scuola primaria e l’accesso all’università è loro proibito. Chi si oppone viene arrestata, fatta sparire, detenuta e torturata. 

Anche in Iran la situazione è critica. Chi, alla fine del 2022, ha protestato contro le restrizioni a diritti e libertà ha subito stupri o altre forme di violenza sessuale, che sono state usate dalle forze di sicurezza per punirle e intimidirle. Decine di migliaia di donne che hanno sfidato l’obbligo del velo sono state condannate al carcere, alle frustate, a pagare multe oppure costrette a seguire corsi sulla “moralità”. 

 

 

Per questo motivo, donne iraniane ed esperte delle Nazioni Unite sostengono a loro volta come la discriminazione e l’oppressione istituzionalizzata da parte delle autorità costituisca il crimine di apartheid di genere. Tra loro c’è Narges Mohammadi, premio Nobel per la pace 2023, che è stata sottoposta più volte negli ultimi 14 anni a detenzione arbitraria, tortura e maltrattamenti.

A giugno 2024, Agnés Callamard, segretaria generale di Amnesty International, ha dichiarato:

“La comunità internazionale non sta riconoscendo, ammettendo e affrontando adeguatamente la dominazione e l’oppressione istituzionali e sistematiche contro le donne, le ragazze e le persone Lgbtqia+.”

 

"Chiediamo che l’apartheid di genere sia riconosciuto come crimine di diritto internazionale per colmare il vuoto nell’attuale sistema giuridico globale. Nessuno dovrebbe permettersi di violare, segregare, ridurre al silenzio o escludere persone a causa del loro genere."

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No vuol dire no, in strada come a casa

Ogni 8 marzo, le strade di tutta l’Italia si riempiono per ricordare chi non c’è più (sono stati già quattro i femminicidi nel 2025) e per chiedere azioni strutturali per sradicare la cultura dello stupro nel nostro paese. 

Secondo un’indagine* recente, in Europa una donna su tre ha subito una forma di violenza fisica o sessuale nella sua vita, due giovani donne su cinque hanno subito molestie sessuale sul luogo di lavoro, solo una donna su otto ha deciso di sporgere denuncia.

Nel nostro paese, almeno il 31 per cento delle donne e delle ragazze ha subito una forma di violenza fisica e sessuale nella sua vita: di queste il 25,9 per cento denuncia di aver subito queste forme di violenze (inclusa quella psicologica) da un partner. 

Questi dati fanno rabbrividire, ma non sconvolgono perché sono frutto di una cultura contro cui da anni lottiamo. Ma in Italia non si fa ancora abbastanza. 

Le statistiche riportate, cui si accompagnano i dati Istat del 2019, secondo i quali quasi quattro persone su dieci ritengono che una donna sia in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se non lo vuole, mostrano infatti chiaramente quanto sia urgente intervenire sulla prevenzione per sradicare stereotipi e credenze alla base delle diseguaglianze di genere. 

Nel nostro paese “no vuol dire no” e “solo sì è sì” non sono frasi scontate. 

È necessario che la cultura del consenso diventi una priorità attraverso un’educazione affettiva che aiuti a gestire il rifiuto e promuova il rispetto reciproco.  

*Indagine realizzata e diffusa da Eurostat, Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali e Istituto europeo per l’uguaglianza di genere

 

 

 

Revisione delle politiche sul lavoro, istruzione, salute riproduttiva e smantellamento degli stereotipi culturali devono essere al centro di un approccio di sistema per combattere le radici della violenza di genere, che deve coinvolgere tutta la comunità in una sola lotta. 

Questo però non basta.  

Nel codice penale italiano l’articolo 609-bis prevede infatti che il reato di stupro sia necessariamente collegato a violenza, minaccia, inganno e abuso di autorità, senza fare alcuna menzione al principio del consenso. 

Nessun riferimento quindi a quanto stabilito dalla Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia nel 2013, per cui lo stupro è un “rapporto sessuale senza consenso” e il consenso “deve essere dato volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona, e deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto”. 

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Sei affermazioni da sfatare

L’accusato non ha nulla da dimostrare. Spetta al Pubblico ministero provare la colpevolezza dell’autore. Ogni persona è considerata innocente finché il tribunale non ne dimostra la colpevolezza. Il principio “in dubio pro reo” (il dubbio va a vantaggio dell’accusato) non è messo in discussione. Se ci sono dubbi sul corso degli eventi, l’accusato viene assolto. Nessuno chiede di rinunciare alla presunzione di innocenza. La riforma mira semplicemente a garantire che possa essere comminata una pena adeguata nei casi in cui il tribunale ritenga che sia dimostrato che l’imputato ha agito contro la volontà della vittima. Attualmente non è sempre così.

Attualmente, nel caso di reati a sfondo sessuale, la testimonianza delle vittime è spesso la principale e talvolta anche l’unica prova. Giudicare la credibilità delle dichiarazioni fa parte della quotidianità professionale delle autorità giudiziarie. Le autorità incaricate delle indagini per tali reati hanno stabilito dei metodi per svolgere questo compito. A tal fine, utilizzano le conoscenze e i metodi della psicologia della testimonianza. In casi particolarmente difficili, è anche possibile ricorrere a specialisti. E se non è possibile chiarire a sufficienza cosa sia successo esattamente, si applica ancora il principio del “in dubio pro reo“. Questo significa che il difficile compito di raccogliere le prove non andrà mai a svantaggio dell’imputato. Già attualmente si procede in questo modo: anche l’uso della violenza non sempre lascia tracce evidenti, per non parlare di una minaccia, eppure crediamo che le autorità giudiziarie penali siano in grado di risolvere e perseguire i reati.

Chi si pronuncia in questo senso dovrebbe quindi anche essere del parere che lo Stato di diritto sia stato abolito in paesi come la Gran Bretagna, il Belgio, la Germania e la Svezia. In nove paesi dell’Unione europea, i rapporti sessuali senza il consenso reciproco o contro la volontà del partner sono già definiti come stupro. In altri paesi (tra cui Danimarca e Spagna, tra gli altri), sono in corso riforme analoghe. L’obiettivo di tali riforme è di garantire maggiore giustizia alle vittime di violenza sessuale e di ridurre l’impunità per i reati sessuali. Inoltre, la modifica della legge mira a chiarire che la società non tollera gli atti sessuali non consensuali e li considera una grave ingiustizia.

Anche questa è un’affermazione che non è stata provata empiricamente. Si basa su un falso mito particolarmente persistente basato su stereotipi di genere (“le donne amano la vendetta“) che porta ad una diffidenza quasi sistematica nei confronti delle vittime di violenza sessuale. In realtà, le vittime devono dimostrare molto coraggio e forza per denunciare un’aggressione alla polizia. Il procedimento penale rappresenta spesso un onere enorme per la vittima: non è raro che l’imputato, o addirittura l’autorità giudiziaria, metta in discussione la sua persona, la sua reputazione e la sua credibilità in modo offensivo. Attraverso domande e rimproveri, le vittime di reati sessuali hanno spesso l’impressione di essere esse stesse colpevoli dell’aggressione o almeno corresponsabili. Questo è dovuto in parte alla natura stessa dell’azione penale, ma a volte esercita una pressione inutile sulle vittime a causa dei falsi miti radicati nella nostra società in merito allo stupro.

L’argomento del pericolo di false accuse viene sempre addotto quando si tratta di rivedere il diritto penale in materia di reati sessuali, il più delle volte senza alcun riferimento a basi empiriche a sostegno di tali affermazioni. Sì, ci sono false accuse, non ci sono dubbi al riguardo. Ma questo rischio esiste per tutti i tipi di reati e le dichiarazioni false sono punibili. Il “pericolo” (chiaramente sovrastimato) di false accuse dipende in ogni caso solo in parte dal modo in cui è formulato il reato. Gli studi dimostrano che le (presunte) false accuse sono spesso basate sullo stereotipo dello stupro “reale” e riflettono l’uso della violenza. In altre parole, false accuse descrivono un comportamento che viene considerato stupro anche nei sistemi giuridici più rigorosi. Le false accuse sono sempre possibili, indipendentemente dal fatto che la definizione di reato sia o meno restrittiva.

La testimonianza delle vittime di violenza sessuale dovrebbe essere trattata allo stesso modo della testimonianza delle vittime di altri reati. Non chiediamo che le vittime siano sistematicamente credute, che la presunzione di innocenza sia abolita o che sia stabilita l’inversione dell’onere della prova. Chiediamo semplicemente che le vittime di stupro siano trattate con rispetto. Ciò significa, innanzitutto, ascoltare le persone interessate senza pregiudizi, esaminare attentamente le loro dichiarazioni e accuse, e dare loro il sostegno cui hanno diritto. Niente di più, niente di meno.

No, non è assolutamente necessario. Si può lasciare tranquillamente l’avvocato nel suo ufficio. Né una App né un contratto hanno senso.  Questo perché il consenso a un atto sessuale deve essere revocabile in qualsiasi momento – cosa che ovviamente non può essere fatta con una App. Inoltre, questo non sarebbe comunque l’approccio giusto: si tratta di comunicazione, sia verbale che non verbale. Niente cambia nel gioco erotico tra partner adulti. Se entrambi (o più) i partner tacciono prima o durante il rapporto, ma vi partecipano pienamente, si parla di un comportamento che segnala un tacito accordo. A quel punto, le persone coinvolte vogliono fare sesso e non si può parlare di aggressione. Se una delle persone cambia idea durante l’atto, deve comunicarlo in un modo o nell’altro al proprio partner e dimostrare che il suo “sì” iniziale non è più valido.

Il punto essenziale – che dovrebbe essere dato per scontato – è che solo il sesso pienamente consentito è accettabile. Fortunatamente, per la maggior parte delle persone, questo è già abbastanza chiaro e la cosa più normale del mondo. Ma purtroppo ci sono delle eccezioni. Uno studio condotto nell’Ue ha rilevato che più di un intervistata/o su quattro ritiene che il rapporto sessuale senza consenso reciproco possa essere giustificato in determinate circostanze – ad esempio, quando la vittima è ubriaca o sotto l’effetto di droghe, ritorna volontariamente a casa con qualcuno, è vestita in abiti succinti, non dice chiaramente “no” o non resiste fisicamente. Per questo motivo abbiamo bisogno di un cambiamento di mentalità nella società e di un diritto penale moderno che fissi chiari limiti.

Il fatto è che lo stupro e altre aggressioni sessuali sono delle gravi violazioni dell’integrità fisica e dell’autodeterminazione sessuale delle vittime. Le norme internazionali e regionali in materia di diritti umani impongono all’Italia di adottare misure per proteggere le donne e le ragazze dalla violenza di genere, di indagare e punire tutte le violazioni dell’integrità sessuale e di risarcire le vittime. Questo spiega il nostro impegno per questa causa.

Illustrazione di S.M.L Possentini - "Per mille camicette al giorno" Mappa: Powered by Esri

 

 

IN STRADA PER IL PANE, MA ANCHE PER LE ROSE

23 Washington Pl, New York, NY 10003, Stati Uniti

Il 25 marzo 1911 scoppia un incendio al 23 di Washington Pl, nel palazzo dove si trova la Triangle Waist Company, azienda che produce camicette e in cui lavorano moltissime giovani immigrate. I proprietari scappano e lasciano morire chi stava dentro: su 149 vittime, 129 sono donne. Nei giorni successivi, in molte scendono in strada per chiedere giustizia e diritti. 

Questa storia si trova in “Per mille camicette al giorno”, di Serena Ballista (autrice) e Sonia Maria Luce Possentini (illustratrice), raccontata proprio da una delle camicette esposte in vetrina che dà voce a quello che successe durante l’incendio e alla lotta di due ragazze, entrambe di nome Rose, per “il pane, certo, ma anche per le rose!”. 

 

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Per molti anni, a questo terribile evento, insieme a quello – falso – dell’incendio nell’industria tessile Cotton, è stata ricondotta l’origine dell’Otto marzo. 

Oggi però sappiamo che la sua storia è più articolata e complessa. Una storia che si muove in tutto il mondo, dalle strade di New York a quelle di Pietrogrado quando, il 23 febbraio 1917, corrispondente all’8 marzo del calendario gregoriano, le lavoratrici tessili entrarono in sciopero.

“L’occultamento della vera e complessa storia dell’Otto marzo […] ha autorizzato molti a pensare che l’Otto marzo trovasse la sua ragione di essere celebrato, di anno in anno, pietisticamente come anniversario commemorativo di un fatto luttuoso. Ma così la Storia non torna. Come spiegare, infatti, che la Giornata internazionale della donna è, oggi come allora, una vitale e indispensabile occasione di mobilitazione, cui hanno spesso fatto seguito leggi e ottenimento di diritti, nonché una perfetta sintesi delle più significative istanze contro le discriminazioni di genere e contro le violazioni dei diritti umani che le donne subiscono in quanto appartenenti al loro stesso sesso?”  – Serena Ballista, scrittrice, formatrice e attivista femminista, autrice di “Per mille camicette al giorno”