“Sono solo migranti!”

29 Gennaio 2025

Foto del governo italiano

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“Ma perché li fanno venire qui per rinchiuderli in quel posto? Tutti dovrebbero avere il diritto di emigrare per cercare un lavoro in un paese più ricco». Il pescatore sul molo di Shengjin ha lo sguardo interdetto mentre osserva scendere dalla nave militare italiana i primi 16 migranti arrivati dal Mediterraneo centrale sulle sponde albanesi del mare Adriatico. Non riesce a dimenticare che pure lui è arrivato clandestino tra le migliaia sulla nave Vlora nel 1991. Ci tiene a dire che è stato un migrante economico rientrato nel suo paese con una sua attività, grazie ai soldi raccolti nei 20 anni di duro lavoro in Italia.

Il pescatore di Shengjin è il primo di una lunga serie di albanesi ex emigrati in Italia incontrati durante i giorni da inviata tra la cittadina portuale, dove sono sbarcati e poco dopo ripartiti 24 migranti egiziani e bangladesi “selezionati” a bordo della nave Libra, della nostra marina militare, dopo essere stati soccorsi in mare tra Lampedusa e le coste nordafricane. Primi due gruppi sperimentali del nuovo protocollo Italia-Albania, che prevede il trattenimento di migranti in territorio extra Ue a giurisdizione italiana. Uomini, adulti, provenienti da quelli che vengono considerati paesi sicuri, anche se non del tutto e non per tutti. In attesa che la Corte di giustizia europea si pronunci sull’enigma dei “paesi sicuri”, nessuno di quelli arrivati a ottobre e a novembre è rimasto in quella struttura più di tre giorni. Situazione che ha lasciato stupiti gli albanesi di Shengjin, che mai avevano visto un imponente pattugliatore dal quale scendono pochi migranti stranieri, circondati da decine di guardie, per poi vederli ripartire poco dopo.

Non se lo spiega il cameriere del ristorante fronte porto che è quasi morto annegato nel 2003 tentando di attraversare la Manica dopo essere passato dall’Italia. Non se lo spiega il poliziotto di guardia davanti al desolato centro di trattenimento di Gjader. Anche lui arrivato clandestino in Italia a fine anni Novanta. “Ci ho provato 19 volte”, dice sorridendo. “Ci hanno sempre beccati e riportati indietro. Sai come ci sono riuscito la diciannovesima volta? Salendo su una barca carica di panetti di droga. Ora faccio il poliziotto a guardia di un centro dove mettono dentro quelli come me”. Poi quasi sussurrando mi dice: “Tanto questa cosa non dura! Questa struttura servirà a ricostruire l’aeroporto e quest’area depressa diventerà una zona turistica”. Solo la signora Vera sembra essere d’accordo con la politica della “deterrenza”.

“Non importa se ne arrivano pochi, importante è che capiscano che non possono andare tutti in Italia, sono troppi, in qualche modo vanno fermati!”, ripete la signora Vera. Lei che con marito e tre figli piccoli nel 1998 era arrivata in Italia su un barcone da clandestina. Lei che con i soldi guadagnati in Italia ha aperto un albergo a Shengjin. Accanto a lei Dora, venditrice ambulante di frutta e verdura non capisce: si chiede e ci chiede cosa hanno fatto questi ragazzi per arrivare fin qui su quella grande nave militare. “Non hanno fatto niente», rispondo. «Sono migranti”.

 

A cura di Angela Caponnetto, giornalista per il numero 1 del trimestrale I Amnesty.

 

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